La Gallura degli stazzi attraverso gli occhi dell’ultimo mezzadro
Chi vive in Gallura, o la conosce abbastanza bene, avrà sicuramente già sentito parlare degli stazzi, le caratteristiche costruzioni rurali che punteggiano omogeneamente tutto il suo vasto territorio tanto da poter affermare, con le parole del geografo Osvaldo Baldacci, che “lo stazzo è il fondamento del paesaggio gallurese; fin dove il suo nome si estende, lí è Gallura”.
Però quello che sempre meno persone sanno è perché queste dimore siano cosí caratteristiche. In fondo sono delle semplici casette di granito, costituite da due o piú ambienti, per lo piú disposti su un unico livello, sormontati da un classico tetto a due falde. Si tratta insomma di una tipologia architettonica piuttosto comune, che si può trovare in tanti paesi e campagne in Sardegna e altrove nel mondo.
Oltre al loro innegabile fascino architettonico e allʼindubbio valore paesaggistico, ciò che rende davvero caratteristici gli stazzi è la cultura, la società e lʼeconomia di cui sono il simbolo, un poʼ come i nuraghi sono il simbolo (tanto da darle il nome) della civiltà nuragica. Per capire lʼessenza degli stazzi bisogna considerare che per secoli (probabilmente fin dalla fine del Medioevo) la maggior parte dei galluresi ha abitato nelle campagne, anche quando queste distavano un giorno a cavallo da uno dei sette paesi allora esistenti. Anche quando sono sorti (o risorti) i primi villaggi della media e bassa Gallura, gli stazzi hanno continuato a esistere e a esercitare un ruolo primario nellʼeconomia del territorio. Ogni stazzo, inteso come abitazione, era abitato da una famiglia che lavorava le decine (spesso le centinaia) di ettari che stavano attorno, praticando diverse forme di allevamento, unʼagricoltura generalmente limitata ad alcuni piccoli campi di cereali, una vigna e un orto, e la silvicoltura per lʼestrazione del legname e del sughero. Come si può facilmente intuire, si trattava di unʼeconomia di autosufficienza, che doveva garantire il sostentamento della famiglia dei contadini-pastori e, a parte i rari casi in cui le terre erano di loro proprietà, anche quella dei proprietari. Quando si aveva un surplus produttivo, questo poteva essere barattato coi vicini, commerciato nei paesi o anche esportato. La Gallura, quindi, a differenza del resto della Sardegna e similmente a poche altre realtà europee, era caratterizzata da un “habitat diffuso”, imperniato appunto sugli stazzi, intesi come dimore ma sopratutto come vastissimi poderi divisi in pascoli, coltivi e boschi. Per usare una metafora, la Gallura era come un tessuto organico composto da cellule autosufficienti ma unite una allʼaltra e immerse in quel fluido vitale che era la società plasmata da quellʼhabitat.
Credo che anche questi cenni preliminari bastino al lettore per cogliere la peculiarità del sistema economico e sociale dello stazzo gallurese. Si potrebbero mettere in risalto molte altre caratteristiche essenziali, ma non ci sembra questa la sede opportuna. Dʼaltronde, chi volesse approfondire lʼargomento può trovare molti libri, in commercio o nelle biblioteche del territorio, che lo trattano in modo piú o meno esaustivo e rigoroso.
Però, a nostro avviso, nei libri finora pubblicati è difficile cogliere un punto di vista fondamentale: quello dei mezzadri. Una mancanza grave, perché è il punto di vista dei protagonisti. Perché i mezzadri sono quegli uomini e quelle donne che piú da vicino, piú dal basso (quel basso umile e dignitosissimo del pieno contatto con la terra) hanno visto, vissuto e formato la società degli stazzi. Ci è parso quindi doveroso provare a dar voce ad almeno uno dei mezzadri fra i tanti che hanno popolato e plasmato questa terra.
Ma perché dovrebbe essere importante osservare la Gallura degli stazzi da questʼaltro punto di vista? Cosa ci può essere di speciale nello sguardo dei mezzadri? In cosa differisce da quello dei proprietari? Quello che posso dire ora in questa prefazione è cosa incuriosiva me e Augusto dello sguardo di un mezzadro, cosa ci ha spinto a porgli queste domande.
Innanzitutto la condizione di “senza terra”, o meglio di “possessori” ma non proprietari della terra che coltivavano, degli animali che allevavano e della casa che abitavano. A volte questa condizione di distacco era quasi paradossale se pensiamo, come nel caso dellʼultimo stazzo curato dal protagonista di questo libro, che il possesso poteva protrarsi per un trentennio, praticamente una vita, al punto che il mezzadro veniva identificato dal nome dello stazzo piú che dal cognome. Come ci si collocava in questo ambiente estraneo ma allo stesso tempo cosí proprio, cosí intimo? Quale ruolo ci si dava? Quanto, al di là della spartizione dei prodotti, si concedeva a se stessi e quanto al proprietario? Come si bilanciava lʼimperativo di produrre e la controversa opportunità dʼinvestire in una cosa altrui? Nella concretezza e immediatezza dellʼorganizzazione aziendale, quanto si poteva e doveva concedere allʼestetica, alla creatività, alla personalizzazione, al ritagliarsi uno spazio intimo personale e familiare? Per fare un esempio concreto, che valore aveva staccare un pezzo di pascolo per farne un giardino davanti casa? E poi, piú banalmente, come si digeriva il fatto di dare per tutta la vita metà del frutto del proprio lavoro a un proprietario spesso assente e del tutto incompetente? Dopo trentʼanni, dopo aver impresso lʼorma del proprio piede praticamente su ogni zolla di terra nella vastità dello stazzo, chi poteva dire di esserne padrone, chi poteva stabilirne la destinazione, chi poteva decidere se restarci o lasciarlo?
E poi la casa, che merita senzʼaltro delle riflessioni a parte. La casa dello stazzo, con i suoi due o tre vasti stanzoni da riempire con i propri pochi mobili… Quelle poche persone che ci vivono tuttʼora sanno che abitare uno stazzo (purché non sia stato ristrutturato e infarcito di tutti i comfort moderni) è come abitare una grotta, uno di quei tafoni dai quali si è evoluto. Lo stazzo, anche nellʼetimo, è inizialmente e propriamente la casa, il luogo in cui si “staziona”, si fa base. Ma poi, con la delimitazione dei confini, lo stazzo diventa il terreno, lʼinsieme organizzato degli appoderamenti attorno alla casa, ai quali si dedica tutto il tempo e le energie, tanto che, sotto il tetto della casa-stazzo, il pastore ci sta solo per dormire e per mangiare. In questo senso è interessante soppesare il valore che il pastore dava alla casa rispetto al tutto, e confrontarlo con il moderno concetto e sentimento dellʼabitare. Forse si può dire che il mezzadro abitava piú lo stazzo-terreno che lo stazzo-casa… Ma era cosí anche per la donna?
Si può avere lʼimpressione che abitare uno stazzo significasse essere comunque sempre dei pionieri, dei colonizzatori, dei segnaposti o degli avamposti nella natura selvaggia. Ma va ricordato che, se si parla, forse in modo improprio, di “civiltà”, è perché quello degli stazzi era un sistema territoriale e sociale a rete, un habitat diffuso o anche, con connotazione un poʼ negativa, un “habitat disperso”. E dunque ci si può chiedere quanto era determinante il fatto di essere una parte di un tutto coerente e organizzato, quasi come in un organismo con le sue cellule autosufficienti ma unite con le altre a formare un tessuto vivo e vitale. Per questo, nella testimonianza di Agostino, sʼinsiste molto sul valore della socialità: lʼamore, lʼamicizia, la famiglia, le istituzioni informali di solidarietà del vicinato (la cussòggja), che rendevano tollerabile e forse anche comoda e piacevole quella vita altrimenti selvaggia.
A tutte queste domande speravamo di rispondere proprio con questo libro. Non sappiamo se ci siamo riusciti. Per chi come noi ha avuto la fortuna di studiare e il lusso di nutrirsi di libri e filosofie sarebbe stato facile e forse rassicurante parlarne in modo astratto o idilliaco. Ma per chi, come il signor Agostino, alternava la lettura delle prime lettere scritte sulla lavagna con quella delle tracce lasciate sul terreno dalle capre disperse, le parole hanno forse unʼaltra dimensione, uno spessore e un odore, sono piú concrete, piú profondamente radicate nellʼesperienza vissuta, sono in ogni senso essenziali. Noi speriamo che la risposta a queste domande trapeli dalle descrizioni e dagli aneddoti raccontati dal signor Agostino e dalle altre testimonianze.
Abbiamo voluto insistere sul tema degli attriti e pregiudizi tra pastori e “padroni”, tra campagnoli e cittadini, sulle incomprensioni e le resistenze che hanno di fatto impedito unʼevoluzione dei rapporti di possesso e di lavoro negli stazzi, condannandoli allʼabbandono e alla rovina assieme alla cultura che li abitava. Nel libro affiorano qua e là diversi aneddoti che ruotano attorno a questa silenziosa ma nervosa “lotta di classe”. Forse per un attimo, ingenuamente, abbiamo creduto e sperato che il signor Agostino si sarebbe tolto qualche sassolino dalla scarpa, cercando un riscatto dopo anni di sfruttamento, elencando a muso duro le colpe dei proprietari terrieri e i torti personali subiti. Invece ha sí parlato piú volte di questo tema, ma sempre con un approccio intelligente, comprensivo e nonviolento, senza mai concedersi uno sfogo, un rancore o unʼanalisi grossolana. Unʼennesima lezione di stile, saggezza e coerenza.
Agostino Asara ha preferito raccontarci gli stazzi e la Gallura nel modo a lui piú congeniale, parlandoci della sua vita in ordine cronologico. Gli stazzi e la Gallura dʼaltronde sono sempre stati la sua vita, se si eccettua la breve parentesi del servizio di leva, al quale abbiamo dedicato un breve pezzo. Cosí abbiamo pensato di strutturare il racconto per paragrafi che prendono il titolo dai nomi degli stazzi in cui Agostino è vissuto, come se fossero le tappe di una piccola e pacifica odissea personale da una parte allʼaltra della Gallura. Tra questi abbiamo inserito degli intermezzi tematici, dei paragrafi che trattano alcuni argomenti specifici scelti da noi o da Agostino: la scuola e il bilinguismo, la politica e la guerra, il mare, lʼigiene, lʼalimentazione, lʼamicizia, la poesia, la musica e il ballo. Un paragrafo a sé, magari meno coinvolgente degli altri ma comunque importante per capire la specificità della condizione mezzadrile in Gallura, è stato dedicato alla mezzadria come istituto giuridico, quasi percorrendo comma per comma gli articoli del codice civile che la regolano.
Il racconto di Agostino Asara, che costituisce la parte principale di questo libro, è stato raccolto attraverso una decina dʼinterviste realizzate nella sua casa o allʼaperto in diversi stazzi dallʼagosto del 2012 al marzo del 2014. Successivamente si è proceduto alla trascrizione e alla “tessitura” delle parti significative del discorso, omettendo però le domande degli intervistatori per rendere la lettura piú fluida e gradevole. Il testo originale in lingua gallurese (anticipato da una breve guida alla lettura) è affiancato nelle pagine dispari dalla versione in lingua italiana.
Il racconto di Agostino è seguito e completato da quello della consorte, Anna Rosa Pattitoni, raccolto e riportato nelle stesse modalità, ma limitato a un unico paragrafo che si concentra sui temi del fidanzamento, del matrimonio e della vita quotidiana della donna nellʼazienda-stazzo e nella famiglia. La mezzadria, infatti, a differenza di altre modalità di conduzione agricolo-pastorale, è caratterizzata dal vincolo giuridico che il proprietario contrae non solo con il pastore ma, attraverso lui, con tutta la sua famiglia. La mezzadria e la società degli stazzi in generale non sarebbero esistite per come le conosciamo senza la presenza attiva e fondamentale delle donne. Lʼintervista alla signora Anna Rosa, per via della sua brevità, non rende merito al ruolo e allʼimportanza delle donne negli stazzi. Questo tema merita sicuramento lo spazio e il risalto di un libro interamente dedicato.
Nella terza parte abbiamo riportato cinque testimonianze di tre uomini e due donne tra le centinaia che avrebbero potuto raccontare la loro esperienza di ospiti e amici di Agostino e Anna Rosa. Questi cinque brevi ma densi racconti testimoniano non solo lʼaffetto e la riconoscenza amichevole ma anche lʼimportanza e le peculiarità del valore dellʼospitalità negli stazzi, valore che, per modestia e discrezione, non è stato vantato da Agostino e Anna Rosa nelle loro rispettive interviste.
Il libro si conclude con un racconto in senso stretto, cioè un testo narrativo, che ho scritto nel 2004 in seguito allʼemozionante conoscenza della famiglia Asara a La Caldósa, un racconto incentrato sul tema dellʼ“elaborazione del lutto” di Agostino in seguito al distacco dal giogo vitale dello stazzo. È stato il mio primo racconto basato su una storia vera, in cui anziché dare consistenza a unʼevasione fantastica, mi sono limitato a dare luce e visibilità a una storia che aveva già in sé tutta lʼautenticità e la poesia. Ed è stato il mio primo racconto scritto in italiano solo nella bozza, ma che si sarebbe dovuto considerare finito solo una volta adattato al gallurese (grazie alla collaborazione del fine poeta tempiese Gianfranco Garrucciu), tanto che la versione in italiano presente anche in questo libro è stata a sua volta adeguata a quella in gallurese.
In conclusione permettetemi di dire che scrivere un libro insieme ad Agostino e Anna Rosa è stato per me un piacere immenso, un doveroso atto di riconoscenza e amicizia, unʼoccasione unica per capire meglio la nostra storia e il nostro presente, e una grande lezione di vita. Il protagonista e il principale autore di questo libro, Agostino Asara, in questo senso forse non è un mezzadro fra tanti: è un maestro e un amico a cui io e Augusto dobbiamo molto, tanto da convincerci di meritare dʼessere ascoltato, e letto, da molte altre persone. E con questa speranza auguro a tutti una buona lettura.
[Dalla mia prefazione al libro A sangu e latti. La vita di un mezzadro negli stazzi della Gallura – Ghilarza, edizioni NOR, 2015)]